"'U Crucifissuzzu ri li cieli" - Testo tratto dal volume "Primo passava San Giuseppe" a cura di Giovanni Cammareri (2006).
Dopo la Messa delle 11:00, tutto muta improvvisamente su quel colle ameno da dove lo sguardo può liberamente spaziare lungo le verdi valli dei Nebrodi fino alla costa e al mare. Cambiano per prime le note della banda che fin dal mattino aveva allietato il fresco e soleggiato paese in odor di primavera, rendendo leggeri il cuore e l'anima di ognuno.
In un tratto della via Aluntina, nei pressi della chiesa dell'"Aracoeli", le bancarelle propongono le solite mercanzie dei giorni sacri, i consueti odori mischiati alle marcette eseguite dal gruppo bandistico locale. Riconosco The King, una musica dai tratti armonici circensi parecchio ascoltata nella Sicilia sud-orientale; mentre la gente, vestita a festa, sale e scende dall'alto sagrato, viene dal tempio e vi ritorna oppure si accalca o passeggia lungo la via il cui nome mi piace credere possa significare: via di Alunzio degli Unti. In effetti non è così. "Aluntium" fu il nome dato dai romani a questo luogo. Gli Unti furono una setta fiorita a Cefalù e ad Alunzio avente finanche il privilegio di amministrare la giustizia.
Per ragioni ritenute sovversive venne sciolta nel XVIII secolo. L'oscuro sodalizio, lugubre come il nome degli associati, pare avesse tramandato fino ai nostri giorni, l'abito azzurro cenere dei "babaluti", i trentatré penitenti dediti al trasporto processionale "d'u Crucifìssuzzu ri li cieli", così chiamato dagli aluntini poiché il Suo viso venne scolpito da una leggiadra mano calata dal cielo.
Molto meglio sognare, molto meglio, piuttosto di dar peso al nome di Simone Li Volsi, scultore di Tusa, che lo scolpi veramente nel 1652. A quel tempo c'erano già i "babaluti".
Un equivoco grossolano ha talvolta trovato spazio attorno l'affascinante figura dei "babaluti" e su questa singolare festa quaresimale, da indurre a definirla "a festa i babaluti". Oppure nell'identificazione del Cristo come "u Signuri 'i babaluti".
"Ma quale Signuri 'i babaluti, ma quale festa 'i babaluti; la festa è del Santissimo Crocifisso", afferma senza il minimo dubbio Nino Notaro, pittoresca persona colta del luogo.
Ogni volta reagisce energicamente se sente parlare di simili dicerie. Effettivamente ha ragione.
Poi mi informa di una ripulitura effettuata nel 2002 a Catania sul "Crucifissuzzu ri li cieli", che non è affatto un piccolo crocefisso come indurrebbe a pensare l'affettuoso vezzeggiativo. Chissà, forse piccolo potrebbe essere stato il precedente simulacro, considerato che la festa dovette avere svolgimento prima delle realizzazione dell'attuale scultura.
Il Meli infatti afferma testualmente: "... la processione del SS. Crocefisso non è tanto antica avendosi fondato nel 1612...".
Nino Notaro continua invece ad arringare contro quella grossolanità, ma pure sulla storia degli Unti e poi sulle numerose feste religiose aventi luogo in paese e ancora su quanto offre San Marco d'Alunzio (tutto, a suo dire) a chi voglia andarci in vacanza.
Per ulteriori informazioni, visto che peraltro è reperibile in un piccolo ufficio turistico, non occorre specificare alcun indirizzo, ci assicura, essendo sufficiente indicare: Nino Notaro, San Marco D'Alunzio. Qualsiasi missiva gli sarà recapitata.
La Confraternita dei Santi Quaranta Martiri invece, sotto il titolo dell'Immacolata, è l'unica sopravvissuta alle dieci prima esistenti ad Alunzio. La loro vita religiosa e sociale oscillava tra la pietà, l'assistenza, la beneficenza e le acerrime lotte per stabilire le precedenze nelle processioni. Niente di diverso rispetto altrove.
Composta dai Maestri artigiani del paese, i confrati dell'Immacolata, ridotti ormai a poco più di una dozzina, continuano a espletare l'assistenza nelle pratiche religiose inerenti al Santissimo. Perciò, verso le 11:00, giunge nella chiesa dell'"Aracoeli" visto che, nell'ambito delle celebrazioni in onore del Crocifisso, rimane ancora in uso l'esposizione e l'adorazione.
Preceduti dallo stendardo, sfilano lungo la navata centrale. Pazienza celeste col medaglione d'argento con l'Immacolata al centro e lampioncino astile fra le mani: quando la messa cantata deve iniziare e "u Crucifissuzzu" è ancora nella propria cappella infondo la navata di destra.
I fedeli vi si avvicinano, almeno alle cancellate spalancate, per quanto è possibile in quel luogo straripante di folla e di fede, nella splendida austerità del momento impregnata di intensa, forte sacralità. Respiro un senso di antico, di trepidante devozione che solo i popoli dei centri montani sono ancora in grado di regalare. Ma respiro anche l'aria pervasa, carica d'incenso, sublimazione di una ancora più religiosa atmosfera. Il profumo dell'aroma bruciato, biblico dono dei Magi, fuoriesce fino al sagrato, dove la banda suona ancora l'allegrezza delle melodie mattutine, accompagnando l'ingresso in chiesa della Confraternita dei Santi Quaranta.
Più tardi processionerà davanti al Crocifisso, ma l'atmosfera sarà diversa.
La riposizione del Santissimo Sacramento segue un percorso, nel senso letterale e rituale, più lungo rispetto ai pochi metri che Lo separano dal tabernacolo.
Sotto un rosso baldacchino, preceduto dai "mastri" e seguito dalla banda musicale, compie un breve giro all'esterno. Il corteo compare dalla porta laterale, percorre un breve tratto della via Aluntina, sale sul sagrato rientrando in chiesa dalla porta principale. Ciò consente alla Confraternita dei Santi Quaranta di compiere il secondo lusinghiero ingresso nel tempio. Che per due giorni è il Pretorio: O meglio, nell'abside, dietro l'altare, viene innalzata una costruzione provvisoria per la larghezza della cappella assiale.
Interamente rivestita di rosso, con finte colonne gialle, si eleva dal pavimento fino alla cupola. Al centro dell'ordine più basso è predisposta una nicchia destinata ad accogliere il Crocifisso, nella parte alta un'altra incavatura contiene già una statua dell'"Ecce Homo" nascosta da una tendina. Infine, una miriade di candele collocate sulle cornici, fra la prima e la seconda elevazione, fino a raggiungere la sommità della struttura, completa l'effetto scenografico del singolare mausoleo che gli aluntini chiamano Pretorio.
Non meno singolare però, appaiono le celebrazioni stesse riservate al Crocifisso, "u Crucifissuzzu ri li cieli", un sorprendente contrasto tra il festaiolo, i riti penitenziali e le sacre rappresentazioni.
La prima parte della mattinata parrebbe l'inizio di una ricorrenza patronale; tutto il resto sembra essere casualmente sfuggito dalle cerimonie della Settimana Santa alle quali però, la tradizione non intende mischiarsi.
Nella maggior parte dei casi, l'ultimo venerdì di marzo significa semmai venerdì di Quaresima. Ma in certi anni può capitare che sia Venerdì Santo, o che addirittura sia persino passata Pasqua. In entrambe le circostanze i festeggiamenti o, se preferite, le celebrazioni, vengono anticipati al Venerdì dei Dolori'.
Comunque sia, insomma, sarà sempre un venerdì quaresimale a sancire l'inizio delle celebrazioni. La mattina del giorno dopo, infatti, il rito prosegue con una messa dedicata agli ammalati. Al termine, tolto il Cristo dalla nicchia del Pretorio, aggrappati alla Croce, materializzazione delle loro speranze, sono proprio gli ammalati a condurlo in una toccante processione all'interno della Chiesa. Quindi la collocazione definitiva nell'abituale cappella dalle grandi cancellate di ferro conclude la festa.
"Quannu nesci lu Diu ti Aracoeli, prima mi lassa l'anima e poi lu cuori", sciorinano i versi di una poesia al Dio di Aracoeli dedicata. Così scende sul sagrato una mestizia inattesa. Gli allegri ritmi del mattino cedono il posto a una triste "Chopin", ai canti gravi del popolo che, sceso il Cristo dalla cappella, ora lo accompagna fuori varcando non solo la soglia, perfino il confine fra la gioia e il dolore. Allora piantano subito la Croce su una "vara" marrone, una semplicissima piattaforma di legno senza fiori né ceri, che da qualche ora attendeva sul sagrato.
Infine, per non farla oscillare, inseriscono dei cunei nelle fessure rimaste alla base della croce stessa.
Frattanto, in tutta segretezza, nel rituale parallelo consumato da secoli, trentatré fra uomini e donne mutano la loro condizione legata al presente per indossare l'abito del perdono, l'abito forse degli Unti, o forse, come afferma una donna del posto, l'azzurro cenere a rammentare proprio la cenere cui l'uomo dovrà tornare.
Sono uomini e anche donne, dicevo, pronti a mantenere la loro promessa, un voto qualsiasi. Qualcuno di essi lo farà per tutta la vita, e per tutta la vita, una volta l'anno, diverrà "babaluto".
Ultimata la vestizione sbucheranno sulla via Aluntina e sarà un nuovo soffio di Medievale retaggio, quella visione di sacchi e cappucci azzurri da dove soltanto gli occhi si vedono appena. A due a due saliranno la scaletta di pietra della porta laterale da dove era uscito il Santissimo, baceranno per terra (l'ultimo compie pure un saltello), quindi, attraversata la chiesa, sbucano dall'ingresso principale per inginocchiarsi infine attorno la "vara".
Frattanto al suono dell'inciso della celebre marcia funebre di Chopin, altri fedeli conducono sul sagrato il quadro della Vergine dei Sette Dolori per porlo ai piedi della Croce.
"La so' matruzza cci stati a li peri: lavi siettifrriti a lu so' cuori", enfatizza la stessa poesia di prima.
La processione deve ancora avviarsi. Approfitto per soffermarmi brevemente su taluni aspetti ereditati dalle antiche rappresentazioni sacre. La costruzione che domina il presbiterio, prima descritta, ne è chiaro esempio, facendo parte integrante dei momenti religiosi interni che accrescono indubbia sacralità alle celebrazioni del SS. Crocifisso di Alunzio.
Conosciamo già l'iter rituale delle funzioni mattutine del venerdì: esposizione del Santissimo, arrivo della Confraternita, Santa Messa, breve processione del Santissimo.
Nel pomeriggio ha luogo la "Via Crucis", che di per sé non è una celebrazione strettamente liturgica, piuttosto una tradizione popolare sviluppatasi tra il XV e il XVIII secolo. Al termine, tolto il Crocifisso dalla vara, lo si pone nella nicchia predisposta nel Pretorio, il cui effetto scenografico trova massimo risalto e apprezzamento nel corso del sermone serale, nel momento in cui tutte le candele brillano in una sinfonia di luci tremolanti, e la tendina dell'"Ecce Homo", in alto, sopra il Cristo in Croce, viene aperta alla stregua di un sipario.
Ma ritorniamo al mattino. Le letture e le omelie, eccezionalmente staccate dalla Santa Messa, vengono rinviate sul sagrato, quando la croce è ormai stata piantata sulla "vara" (che qui chiamano "sepulcru"), il quadro della Madonna ha superato la soglia dell'ingresso principale, e i "babaluti" stanno inginocchiati attorno al Dio di "Aracoeli".
Si ferma la banda. Cessa anche il canto dei fedeli.
Il sacerdote sale su qualcosa accanto la colonna del portale; legge Giovanni e poi predica. Ricomincia il canto ad accompagnare il cammino della Madre alla volta del Figlio.
La Vergine dei Sette Dolori finalmente è sopra "u sepulcru" ai piedi della Croce. Vi sale anche il prete; legge Luca e predica ancora. Dopo è di nuovo Chopin.
I "babaluti" allora smettono la loro genuflessione ponendosi sotto le lunghe travi. Sedici avanti, sedici dietro. Uno a guidarli. Sollevati la Madre e il Figlio, accennano un mesto dondolio di dolore.
E incomincia un'interminabile supplica.
"Signuri Misericordia Pietà" chiedono sommessamente i sedici davanti a cui rispondono i sedici dietro. Ma pure le donne vicine al sepolcro e quelle che scalze lo seguono: "Signuri Misericordia Pietà". Ora è davvero tutto mutato su quel colle che era stato baciato dal sole. Come sempre, quando il fercolo intraprende la discesa dei gradini del sagrato, la nuvole velano il sole, nascondono l'azzurro del cielo siciliano, e in un momento la luce si fa discreta, soffusa, quasi a voler accompagnare come una consolatrice carezza il viatico appena iniziato.
"Signuri Misericordia Pietà"; uno dietro l'altro senza fermarsi mai, fra le meste note della banda che poco distante segue la "vara", l'anomalo "sepolcro" degli aluntini.
"U Signuri" invocato dai "babaluti" non viene mai posato. Incede al passo dei portatori, due lunghe teorie di azzurro cenere interrotte dal fercolo stesso, suggestiva immagine d'altri tempi stagliata nelle tortuose vie del paese, avvolta nel lamento dei "babaluti".
E un intero popolo dietro. Una fiumana che scende o s'inerpica lungo il percorso curvilineo dove a un certo punto avanzano le chiese. Una segue l'altra. Pietre medievali coi monasteri ormai vuoti accanto, e ampi sagrati spalancati innanzi.
Lì vicino sembra perfino acquistare più senso la supplica di quei penitenti.
"Signuri Misericordia Pietà"... una volta i portatori davanti, una volta quelli dietro. Così, fra l'incessante lamento e le marce sommesse, il mesto rito prosegue fino al rientro nella chiesa di "Aracoeli".
Dopo un'ora o poco più di intensa ritualità e poesia. Adagiato "u sepulcru" in mezzo la navata centrale, i "babaluti" si dileguano in pochi istanti. Ma non i fedeli. Ad uno ad uno, uomini e donne, vecchi e bambini, passano accanto i simulacri. Sfiorano la Vergine, baciano il Cristo; eppure baciano la Vergine e sfiorano il Cristo. O baciano tutti e due. Senza fretta, uno alla volta, tanto la festa continua.
- Testo tratto dal sito "Messinaweb.eu".
- Foto tratte dalla pagina facebook "Parrocchia "San Nicolò di Bari" San Marco d'Alunzio".







